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Ottobre 28, 2020

Accesso a Sky senza abbonamento è reato


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Accesso a Sky senza abbonamento è reato – La Cassazione penale, sez. III, sentenza 10/10/2017 n° 46443 conferma la pena di 4 mesi di carcere e 2.000 euro di ammenda.
Risponde del reato di cui all’art. 171-octies della L. n. 633 del 1941 chi guarda la TV satellitare senza il pagare il canone, indipendentemente dal mezzo utilizzato.

Indice dei contenuti Accesso a Sky senza abbonamento è reato

  1. Svolgimento del processo
  2. Motivi della decisione
  3. P.Q.M.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Sentenza 30 gennaio – 10 ottobre 2017, n. 46443

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo – Presidente –

Dott. GALTERIO Donatella – rel. Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. GAI Emanuela – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –
 

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

I.F., nato a (OMISSIS) il (OMISSIS);

avverso la sentenza in data 12.4.2016 della Corte di Appello di Palermo;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GALTERIO Donatella;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;

udito il difensore, avv. FARINA Giuseppe, sostituto processuale dell’avv. FARINA Tommaso, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 12.4.2016 la Corte di Appello di Palermo ha confermato integralmente la sentenza di primo grado che aveva condannato I.F. alla pena di quattro mesi di reclusione ed Euro 2.000 di multa per avere in violazione della L. n. 633 del 1941, art. 171 octies installato un apparecchio con decoder regolarmente alimentato alla rete LAN domestica ed internet collegato con apparato TV e connessione all’impianto satellitare così rendendo visibili i canali televisivi del gruppo SKY Italia in assenza della relativa smart card.

Avverso la suddetta sentenza ricorre in Cassazione l’imputato affidando il proprio ricorso ad un unico motivo con il quale deduce, in relazione al vizio di violazione di legge ed al vizio motivazionale, l’erronea qualificazione del fatto ai sensi della L. n. 633 del 1941, art. 171 octies, norma del tutto residuale riservata esclusivamente ad attività illecite a livello professionale, deponendo invece il riferimento ad un canone imposto per l’accesso alla visione dei programmi dell’emittente Sky e lo scopo di lucro sotto il profilo soggettivo da contrapporsi a quello fraudolento, assente nella fattispecie, per la riconducibilità della condotta nell’alveo normativo della L. n. 633 del 1941, art. 171 ter, comma 1, lett. f). Sostiene inoltre il ricorrente che nessuna spiegazione sia stata dalla sentenza, che fonda il verdetto di colpevolezza sul sistema del card sharing, ravvisabile in presenza del Kit sharing consistente in un decoder e in una smart card collegata, come l’imputato avesse potuto accedere alla visione dei canali Sky in assenza di una smart card, mai rinvenuta presso la propria abitazione, senza tenere conto della versione fornita dallo stesso, che aveva affermato di aver acquistato i codici di decodifica sul web.
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Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

Il ricorrente censura con l’unico motivo di ricorso svolto la sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di violazione di legge e di carenza o illogicità motivazionale, tra loro all’evidenza contraddittori posto che da un canto si duole dell’erronea qualificazione giuridica del fatto e dall’altro lamenta il salto logico effettuato dall’accertamento del fatto, consistito nella decodifica del segnale satellitare Sky nella propria abitazione, all’applicazione della fattispecie di reato ascrittagli. Il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), riguarda l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza) ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto la fattispecie astratta), mentre il vizio motivazionale presuppone un’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, ipotesi, questa, mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016 – dep. 10/11/2016, P.M. in proc. Altoè e altri, Rv. 26840401). La ricostruzione in fatto operata dalla Corte territoriale non è contestata dal ricorrente, che censura invece l’erronea applicazione della L. n. 633 del 1941, art. 171-octies alla fattispecie concreta. Conseguentemente non è profilabile alcun vizio motivazionale tenuto conto che nel giudizio di cassazione il vizio di motivazione non è mai denunciabile con riferimento a questioni di diritto, poichè queste, se sono fondate e disattese dal giudice, motivatamente o meno, danno luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge, mentre, se sono infondate, il loro mancato esame non determina alcun vizio di legittimità della pronuncia (Sez. 1, n. 16372 del 20/03/2015 – dep. 20/04/2015, Rv. 263326).

Così delimitato il perimetro dell’impugnazione, la censura svolta si appalesa, anche in punto di violazione di legge, manifestamente infondata.

Va al riguardo rilevato che la L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 171 ter, lett. f) bis, punisce colui il quale “fabbrica, importa, distribuisce, vende, noleggia, cede a qualsiasi titolo, pubblicizza per la vendita o il noleggio o detiene per scopi commerciali, attrezzature, prodotti o componenti, ovvero presta servizi che abbiano la prevalente finalità o l’uso commerciale di eludere efficaci misure tecnologiche di cui all’art. 102 quater, ovvero siano principalmente progettati, prodotti, adattati o realizzati con la finalità di rendere possibile o facilitare l’elusione di predette misure….”; e che, invece, la L. n. 633 del 1941, art. 171 octies sanziona chi “a fini fraudolenti produce, pone in vendita, importa, promuove, installa, modifica, utilizza, per uso pubblico e privato, apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato, effettuate via etere, via satellite o via cavo, in forma sia analogica, che digitale”. Invero i fatti previsti dalla norma di legge da ultimo riportata, introdotta dalla L. 18 agosto 2000, n. 248, art. 17, depenalizzati dalla successiva emanazione del D.Lgs. 15 novembre 2000, n. 373 (entrato in vigore il 30/12/’00), hanno riacquistato rilievo penale a seguito della modifica apportata, dalla L. 7 febbraio 2003, n. 22, art. 1, all’art. 6, comma 1 del detto decreto legislativo, con la previsione dell’applicabilità anche delle sanzioni penali e delle altre misure accessorie di cui alla L. n. 633 del 1941, artt. 171 bis e 171 octies e successive modifiche.

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Il raffronto tra le due norme rende palese che le condotte incriminate dall’art. 171, lett. f sono tra loro accomunate dalla finalità commerciale concretandosi l’illecito nella immissione sul mercato di prodotti o servizi atti ad eludere le misure tecnologiche di cui all’art. 102-quater, non essendo ivi compresa la condotta di chi invece utilizza i dispositivi che consentono l’accesso ad un servizio criptato senza il pagamento del dovuto corrispettivo, condotta questa che è invece espressamente sanzionata dall’art. 171 octies, indipendentemente dall’utilizzo pubblico o privato che venga fatto dell’apparecchio atto alla decodificazione di trasmissioni audiovisive.

Non ricorre, all’evidenza, nessun vizio integrante la violazione di legge: nè sotto il profilo dell’inosservanza, non avendo il giudice a quo applicato una determinata disposizione in relazione all’operata rappresentazione della norma, o applicato la norma sul presupposto dell’accertamento di un fatto diverso da quello contemplato dalla fattispecie incriminatrice; nè sotto il profilo della erronea applicazione, avendo la Corte di merito esattamente interpretato, alla luce dei principi fissati da questa Corte, la disposizione applicata. Correttamente i giudici palermitani hanno, invero, ricondotto nell’ambito della L. n. 633 del 1941, art. 171-octies la condotta incriminata, pacificamente consistita nella decodificazione ad uso privato di programmi televisivi ad accesso condizionato e, dunque, protetto, eludendo le misure tecnologiche destinate ad impedire l’accesso posto in essere da parte dell’emittente, senza che assumano rilievo le concrete modalità con cui l’elusione venga attuata, evidenziandone la finalità fraudolenta nel mancato pagamento del canone applicato agli utenti per l’accesso ai suddetti programmi. E’ poi evidente cha dalla ricondotta rilevanza penale del fatto nell’alveo della norma così individuata discenda, de plano, l’antigiuridicità della condotta ascritta all’imputato, non potendosi prendere in esame per le ragioni sopra esposte le ulteriori doglianze svolte sul piano motivazionale, peraltro sviluppate nell’orbita delle mere censure di merito.

Non sussistendo pertanto i presupposti per invocare l’intervento di questa Corte, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende.
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P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2017.


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